Independence Day Fun Club

Evidence Based Medicine, più tutto il resto: È la stampa, bellezza; Farmacista & Cittadino; Meno tasse per tutti...

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Località: Italy

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22 agosto 2006

Meno tasse per tutti
«Italia nemica dell’impresa»

Tratto da “Il Sole 24 Ore” di martedì 22 agosto 2006, pagina 16

(Senza mio commento)

«Italia nemica dell’impresa»
Il fondatore di Logitech, Zappacosta: non si tutela chi genera ricchezza

di Emilio Bonicelli, inviato a Milano

(…) Dopo 30 anni da affermato manager negli Stati Uniti, Pierluigi Zappacosta, (…) cofondatore del colosso Logitech e presidente di DigitalPersona, è tornato nel 2005 a investire in Italia, ma ha subìto tutti i traumi di chi, abituato a un ambiente che favorisce la libera impresa, si è dovuto cimentare in un Paese, il nostro, dove «tutte le cose che negli Usa per un’azienda sono facili e banali diventano difficilissime». Tanto che, dopo un anno di battaglie contro i mulini a vento della burocrazia, «che non ha rispetto per la società civile, che siamo noi», sbotta: «Ma in Italia c’è ancora qualcuno che difende il capitalismo, cioè il metodo più pulito per creare ricchezza e libertà?».
L’esperienza vissuta dopo la costituzione di Faro, società di partecipazione in aziende italiane da rilanciare e sviluppare, sino al previsto approdo alla Borsa, lo ha convinto che a questa domanda si debba dare, purtroppo, una risposta negativa.
Tre sono le partecipazioni sinora realizzate, due di minoranza, nella Innova Technology Solutions di Chieti e nella Tecnomatic di Teramo, una di maggioranza nel pastificio abruzzese Delverde. Quest’ultima società era in procedura fallimentare e quando, dopo l’interminabile e tormentato percorso per definire l’acquisto, si era finalmente giunti al momento della sigla finale mancava il giudice, perché quel pomeriggio non si era recato al lavoro. «Negli Usa, con un po’ di buon senso pragmatico, saremmo andati a trovarlo a casa, che peraltro distava poche decine di metri dal luogo della trattativa, ma in Italia questo è impensabile».
È solo uno dei molti esempi che servono a Zappacosta per chiarire che in Italia esiste un problema culturale per cui «ci si illude di poter crescere senza cambiamento, si sovvenziona di più chi consuma ricchezza che chi la genera ed è diffusa l’idea che l’imprenditore sia un potenziale truffatore (evasore) e non un benefattore della società». In Italia, continua Zappacosta «c’è anche l’idea che il Governo sia più pulito dell’impresa. In realtà possiede una potenzialità di corruzione maggiore perché l’azienda, se non produce in modo efficiente, fallisce, ma chi risponde per le inefficienze dell’ente pubblico? Un’economia più libera genera un rispetto profondo dell’individuo e lo Stato non ha diritti se non quelli attribuiti dai cittadini». (…)

21 agosto 2006

Meno tasse per tutti
Abolire i dazi doganali

Nel suo post del 20 agosto, Beppe Grillo scrive (tra le altre cose): «Le nazioni più sviluppate dovrebbero destinare una parte del loro Pil, almeno quanto spendono in armi, magari al posto delle armi, per aiutare i Paesi poveri. Distribuire la ricchezza nel mondo per non importare schiavi e instabilità sociale.»

Sbagliato! E' ora di finirla di lasciare i nostri soldi ai politici, che non fanno altro che sprecarli. I politici sono pessimi distributori di risorse, meno quattrini nostri hanno da spendere, meglio è. Basta con le tasse! La percentuale del Pil di cui parli, destiniamola ad abbassare le tasse, in proporzione, a tutti.
Invece, aboliamo i dazi doganali che colpiscono le merci in entrata dai Paesi poveri: esse saranno più competitive e il loro commercio consentirà di aumentare la produzione in quei paesi. Nuove fabbriche daranno lavoro ai loro abitanti, senza intervento (e spreco) del nostro denaro pubblico.
Le nostre fabbrichette, che restano in piedi grazie 1) ai dazi protezionistici; 2) alla manodopera immigrata sottopagata, chiuderanno qui per riaprire là, dando lavoro là e lasciando là i lavoratori.
Meno Stato, meno tasse, commercio libero: è questa la soluzione.

17 agosto 2006

Evidence Based Medicine
I medici hanno un insano desiderio di regali

Melissa Fyfe
August 4, 2006

(Riporto la mia traduzione di questo articolo. Considerazioni in fondo)

I medici hanno un insano desiderio di regali

L’inchiesta più approfondita svolta finora sull’argomento ha rivelato che medici specialisti chiedono regali, del valore compreso tra 50 e 100.000 dollari (australiani), alle aziende.
Le richieste variano: denaro per pagare lo stipendio alle infermiere, donazioni per I propri reparti, computer, microonde, giornali specializzati, libri di testo, CD, e perfino denaro per un ricevimento di Natale.
L’Università del Nuovo Galles del Sud (Australia) ha chiesto, a 823 specialisti di tutto lo Stato, che cosa le aziende gli hanno dato e che cosa essi hanno chiesto alle aziende. Si è trovato che a quasi tutti gli specialisti sono stati offerti cibo e regali per l’ufficio, e che uno ogni due medici ha ricevuto regali personali – tra cui crociere nel porto e biglietti al teatro – così come denaro per viaggi di lavoro. Il quindici per cento ha chiesto alle industrie farmaceutiche regali, denaro, viaggi.
«I medici sono talvolta visti come le vittime innocenti, e i carnefici in questo caso è l’industria farmaceutica», dice l’autore, professore associato di etica e legge in medicina, Paul McNeill. «In realtà, è una relazione in cui tutti e due ci mettono del proprio.»
L’inchiesta, pubblicata online sull’Internal Medicine Journal di oggi, segue recenti commenti del capo della Commissione Australiana per la Concorrenza e il Consumatore, Grame Samuel, secondo cui «queste sporche vicende» sono «una spiacevole macchia sulla professionalità e il buon nome dei medici australiani».
Lo studio ha trovato che sei specialisti hanno chiesto denaro per pagare gli stipendi delle infermiere, uno ha chiesto 80.000 dollari; un altro ha chiesto una donazione di 60.000 dollari per il dipartimento, «in cambio di tempo per incontrare gli informatori [dell’azienda farmaceutica]».
Ogni anno le aziende farmaceutiche spendono milioni per cercare di convincere gli specialisti – quali esperti in tumori, patologie del sistema respiratorio e cardiocircolatorio – a prescrivere le loro medicine. La posta in gioco è elevata, poiché la prescrizione da parte di uno specialista può aggiungere un farmaco costoso alla lista della farmacia ospedaliera e procurare notevoli profitti all’azienda farmaceutica.
Lo studio ha trovato che i regali personali offerti ai medici avevano un valore fino a 40.000 dollari e includevano vino, fiori, una cena in un ristorante esclusivo, crociere nel porto, biglietti per il cinema, il circo, concerti, opera e partite. Secondo il codice etico di Medicines Australia, la principale associazione dell’industria farmaceutica, i biglietti per manifestazioni non di aggiornamento professionale sono proibiti.
Il professor McNeill ha detto che questo genere di regali, sebbene molto meno comuni che viaggi gratuiti e cibo, potrebbero essere la spia di qualche cosa di più diffuso.
Del 50 percento di specialisti chi sono stati offerti viaggi per conferenze, i due terzi hanno accettato e la maggior parte ha partecipato come spettatori, non come relatori.
Gli autori – tra cui ci sono professori di etica e di medicina dell’Università di Sidney e dell’Università di Newcastle – raccomandano nel loro rapporto la fine dei pagamenti diretti dei viaggi da parte delle aziende farmaceutiche. I fondi aziendali destinati ai viaggi dovrebbero essere erogati attraverso un gruppo indipendente, dice il rapporto.
L’Ordine Reale dei medici dell’Australasia ha recentemente aggiornato il suo codice deontologico volontario, suggerendo che i medici “prendano in considerazione con cautela” le offerte di viaggi per partecipare alle conferenze.
Un portavoce di Medicines Australia ha detto che lo studio è stato condotto prima di un miglioramento del proprio codice di condotta, aggiornato nel 2003. «Medicines Australia e l’industria farmaceutica danno il benvenuto ad ogni verifica della relazione esistente tra le aziende e i professionisti della salute», dice.
Secondo il professor McNeill, i medici si sentono in difficoltà a proposito dell’argomento e desiderano discuterlo.

Link: qui e qui.



Gli anglosassoni non nascondono la testa sotto la sabbia come facciamo noi: riconoscono un problema, lo affrontano e cercano di risolverlo.

Anche da noi il comparaggio è storia vecchia, ma non si fa nulla. Escono libri (La Mala Ricetta), si attiva la magistratura, ne parlano i giornali, ma tutto in breve tempo viene inghiottito dalla nebbia del silenzio. Nulla cambia, tutto procede come prima. «E io (cittadino, contribuente, paziente) pago…!» Quanto durerà?

09 agosto 2006

Meno tasse per tutti
Chi strozza la gallina...

Tratto da “Soldi Sette” (settimanale finanziario dell’associazione Altroconsumo – www.soldi.it) n° 695 del 6 giugno 2005, prima pagina

(Riporto integralmente l’articolo. Le mie considerazioni sono in fondo)


Chi strozza la gallina...

...poi non mangia più le uova! Questo il principio base della riduzione delle tasse richiesta da più parti e proposta anche in campagna elettorale da parte dell'attuale presidente del consiglio sotto forma di riduzione del cuneo fiscale. Ma perché tagliare le tasse è una panacea per l'economia? Una prima risposta viene dall'osservazione della realtà: chi negli anni passati l'ha fatto (Usa, Gran Bretagna...) ha scampato il declino (quello inglese negli anni '70 pareva inarrestabile) e oggi ha un'economia florida e conti pubblici sani; chi ha mantenuto una pressione fiscale elevata (Europa continentale) ha il fiato corto e fatica a far quadrare i suoi conti. Una seconda osservazione viene dalle teorie economiche: meno soldi se ne vanno in tasse, più la gente ha denaro per i propri consumi (e i consumi tirano l'economia), più le imprese hanno soldi da investire (e gli investimenti fanno da volano alla ricchezza di un Paese). Una terza osservazione è che tagliare le tasse vuol dire dare meno soldi allo Stato e pare che tagliargli i fondi a disposizione sia l'unico sistema per ridurre drasticamente la sua presenza nell'economia. Meno Stato vuol dire più spazio ai privati e visto che i privati sono più taccagni – almeno per il denaro che sta nelle loro tasche – rispetto agli enti pubblici – che di denaro spendono quello altrui – secondo molti questo significa meno sprechi e, quindi, meno spazio per il deficit.



Ecco, non avrei usato la parola “taccagni”, avrei detto “oculati”.
Notare la prudenza con cui si esprimono: «pare che»; «secondo molti»...
Meno Stato nell'economia e meno soldi agli enti pubblici: è la ricetta giusta per la prosperità dell'Italia.
I politici sono pessimi ripartitori del capitale: sé stessi, parenti, amici, amici degli amici; e quando invece sono in buona fede, combinano pasticci. Meno soldi hanno da spendere e meglio è.
È consolante constatare come, finalmente, cominci a levarsi qualche voce favorevole alla diminuzione delle tasse in Italia, che sono troppe (saranno qualche centinaio?) e incidono troppo in percentuale sul reddito.
L'Italia soffoca, di troppe tasse si muore...

06 agosto 2006

È la stampa, bellezza
Wimbledon è lontana

Tratto da “Il Corriere della Sera” di domenica 23 luglio 2006, pagina 26
di Massimo Mucchetti

(Riporto integralmente l’articolo, pubblicato nella rubrica «a Conti Fatti». Le mie considerazioni sono in fondo)

Le privatizzazioni dal mito di Wimbledon alla realtà del Senato

Il 27 febbraio 2005 Tommaso Padoa-Schioppa ha scritto per il Corriere un editoriale sul patriottismo economico intitolato «L'effetto Wimbledon». L'ex banchiere centrale citava il celebre torneo di tennis quale modello di promozione dell'interesse nazionale avendo per orizzonte il mercato globale. Wimbledon, infatti, rappresenta un fiore all'occhiello del Regno Unito non perché sia appannaggio dei tennisti inglesi, ma perché sa conquistarsi regolarmente la partecipazione dei migliori del mondo. Se gli organizzatori manomettessero le regole per far vincere un atleta locale, il prestigio del torneo ne risulterebbe compromesso e sarebbe una perdita per la nazione. Il mito di Wimbledon valeva e vale anche per l'economia italiana. E Padoa-Schioppa non risparmiava gli esempi - dalla Fiat all'Alitalia alle banche - dove c'era la tentazione di «far vincere» il tennista di casa.

Chi portasse la metafora alle estreme conseguenze arriverebbe a concludere che il governo non solo non deve aggiustare le regole nel corso della partita per favorire i «campioni nazionali», peccato contro la concorrenza che verrebbe peraltro sanzionato dalla Commissione europea, ma deve anche ritrovare coerenza: lo Stato, infatti, non può dettare le regole, controllarne l'osservanza e partecipare alla gara in competizione con i regolati senza incorrere in seri conflitti d'interesse. Nell'economia in stile Wimbledon, insomma, non ci dovrebbe essere posto per lo Stato imprenditore.

Nel suo editoriale, tuttavia, Padoa-Schioppa fino a questo punto non era arrivato. E ora si capisce perché. Intervenendo giovedì 20 luglio al Senato da ministro dell'Economia, Padoa-Schioppa ha annunciato che la mano pubblica non molla la presa su Eni, Enel, Finmeccanica e Cassa depositi e prestiti. Potrebbe aprire il capitale di Poste Italiane e Ferrovie ai privati, ma si tratterebbe di quote di minoranza simili,va detto, a quelle che mettevano in Borsa le banche e le finanziarie dell'Iri per le telecomunicazioni, le autostrade, l'agroalimentare o la siderurgia.

È interessante la ragione che il ministro ha addotto per non vendere altre azioni Eni ed Enel: «Siamo arrivati al limite sotto il quale queste aziende sarebbero sottoposte a offerta pubblica d'acquisto». Questo vuol dire che in certi casi, a suo giudizio, la stabilità degli assetti azionari è un bene da tutelare, e che nessuno meglio dello Stato lo può fare. Il punto, in verità, era chiaro da anni. Ma ci voleva un Padoa-Schioppa, con la sua solida reputazione liberale, per far emergere quanto sia lontano dalla realtà chi teorizza le privatizzazioni sempre fino all'ultima azione.

Dall'assunzione di responsabilità del ministro derivano, a mio parere, quattro conseguenze: a) il governo e gli enti locali potranno decidere se vendere o meno in base all'analisi concreta delle convenienze specifiche, e allora, per fare un esempio, il socialismo municipale potrà non essere smantellato tout court in quanto coacervo di piccole Iri, ma rivisto con scienza e coscienza; b) non risolvendolo in radice, il governo dovrà gestire in trasparenza il conflitto tra Stato regolatore e Stato azionista, e se darà il primato alla regolazione il modello Wimbledon sarà sostanzialmente salvo; c) da buon azionista, il governo non dovrà impedire lo sviluppo delle aziende, cosa che talvolta ha fatto, anche perché la sua partecipazione al 30% offre uno scudo destinato a indebolirsi mano a mano che cresce l'integrazione europea, ed Eni ed Enel saranno sempre più esposte al rischio di scalate ostili e beffarde perché potrebbero essere finanziate con debiti ripagabili dalle stesse prede; d) il ministero dell'Economia dovrà infine decidere se monetizzare comunque le partecipazioni senza perderne il controllo, attraverso la Cassa depositi e prestiti o sue più sofisticate filiazioni utilizzando la leva finanziaria a favore del bilancio pubblico.



I partiti hanno occupato lo Stato, e se ne servono per favorire gli scopi privati dei propri membri. Le aziende pubbliche, quotate in Borsa oppure no, sono una grande fonte di potere e di denaro: esse rappresentano posti di lavoro (dovrei dire sinecure) e opportunità d’intrallazzo (perfettamente legali, s’intende) per parenti, amici, amici degli amici. Costoro, in cambio, votano ad ogni elezione secondo le direttive dei partiti, perpetuandone il potere in un circolo vizioso che ormai conosciamo fin troppo bene. Le aziende pubbliche pagano la pubblicità sui giornali: di partito, o di proprietà degli amici del partito. Sponsorizzano (pagano a piè di lista le spese per) gli inutili convegni di questo e di quel personaggio politico. Esse sono destinate a rimanere in mano pubblica il più a lungo possibile…

Un problema italiano molto serio, dato dall’enorme dimensione del PIL prodotto da aziende pubbliche (dimensione da far invidia a Stati comunisti) è che lo Stato è contemporaneamente regolatore e regolato. Le regole non sono uguali per tutti… e vengono cambiate a gioco in corso (a vantaggio degli amici dei partiti). Quand’anche qualche personaggio del “sistema” vìola le regole, non c’è problema: la macchina della giustizia è molto lenta e i reati cadono in prescrizione. Ci sono casi addirittura in cui il fascicolo viene aperto e non viene toccato fino al sopraggiungere di questa.
E quando qualcuno dei furbetti non riesce a farla franca, ecco – a scadenza periodica - l’indulto.

Nell'economia in stile Wimbledon non ci dovrebbe essere posto per lo Stato imprenditore. Invece, ecco la ragione che il ministro ha addotto per non vendere altre azioni Eni ed Enel: «Siamo arrivati al limite sotto il quale queste aziende sarebbero sottoposte a offerta pubblica d'acquisto». Se Eni ed Enel fossero acquistate da aziende straniere, addio privilegi per i politici italiani.

È ovvio che la classe politica ricorre alle vere privatizzazioni solo quando assolutamente costretta. Ma anche in quel caso, la vendita è spesso pilotata.

Dall'assunzione di responsabilità del ministro derivano, a mio parere, quattro considerazioni: a) il governo e gli enti locali non cederanno il controllo delle aziende pubbliche; e allora, per fare un esempio, il socialismo municipale continuerà sine die. Scienza e coscienza? Chi, i politici? Mi viene da ridere; b) non risolvendolo in radice, il governo continuerà a gestire con la tradizionale opacità il conflitto tra Stato regolatore e Stato azionista, mandando a farsi benedire il modello Wimbledon (Luigi Einaudi, quello sì fu un liberale e grande statista); c) da cattivo azionista, il governo continuerà ad ostacolare lo sviluppo delle aziende, appesantendole con personale non necessario, consiglieri incapaci, direttive dal significato “politico” e completamente sbagliate dal punto di vista economico… anche perché la sua partecipazione al 30%, per il momento, offre uno scudo adatto a resistere all'integrazione europea, ed Eni ed Enel non saranno esposte al rischio di scalate ostili per molto tempo ancora; d) il ministero dell'Economia monetizzerà comunque le partecipazioni senza perderne il controllo, attraverso la Cassa depositi e prestiti o con qualche altra acrobazia contabile, rendendo ancor più difficile da decifrare il bilancio pubblico.

Wimbledon è molto lontana da qui.

04 agosto 2006

Farmacista & cittadino
I farmaci al supermercato

Sono molti mesi che, sui canali televisivi e sui giornali, c’è un gran clamore propagandistico legato alle medicine. Aziende farmaceutiche, catene di supermercati (in prima fila la Coop), uomini politici vogliono far credere ai cittadini che – con la vendita dei medicinali cosiddetti “da banco” anche al supermercato – i consumatori potranno risparmiare (si parla di circa 12,00 euro l’anno per ciascuno) sulla spesa per i farmaci.

Ebbene, questo non è vero. La verità è che la spesa per le medicine di automedicazione (o “da banco”, o OTC, come vengono chiamate) aumenterà.
Le aziende che producono farmaci sono aziende come le altre, quindi sono orientate esclusivamente alla massimizzazione del profitto.
Anche lo scopo della Grande Distribuzione Organizzata (GDO: supermercati e ipermercati) è quello di vendere, vendere il maggior numero possibile di prodotti, al prezzo più alto possibile.
I politici (in generale – le eccezioni ci sono sicuramente) non sono minimamente interessati al benessere dei cittadini: il benessere che hanno in mente è il proprio.

Dunque, spenderete di più per le medicine, e ne consumerete di più.
Con quali meccanismi succederà questo?
Il primo meccanismo è ben conosciuto da chi si occupa di marketing: con l’aumentare dell’offerta e delle occasioni di acquisto, aumenta anche la domanda. In altre parole: il consumatore avrà più possibilità di acquisto e di conseguenza acquisterà di più.
In secondo luogo aumenterà la pubblicità diretta di farmaci (in televisione e sui giornali), l'aumento delle vendite è assicurato.
Terzo meccanismo, la pubblicità mascherata: gli spazi redazionali dedicati alla salute – sia televisivi che sui giornali – vi fanno credere di aver bisogno della tale medicina (e vi inviteranno ad acquistarla) per il tal disturbo (talvolta "inventato" di sana pianta), anche se in realtà non serve.
Quarto meccanismo: il supermercato favorirà – con le tecniche di vendita usate normalmente – il cosiddetto “acquisto d’impulso”: vi venderanno le medicine anche se non ne avete bisogno.

Qualche dato?
L’ANIFA (Associazione Nazionale dell'Industria Farmaceutica dell'Automedicazione - è l'associazione nazionale che rappresenta le Imprese Farmaceutiche produttrici di farmaci di automedicazione, da banco – OTC – cioè quelle specialità medicinali che si possono acquistare liberamente in farmacia senza obbligo di ricetta medica), ha da poco pubblicato un bollettino (Giugno 2006 - anche qui). È riportata una tabella, relativa alla spesa pro capite per farmaci con obbligo di prescrizione e SOP (Senza Obbligo di Prescrizione) nei principali Paesi europei (2005).
Essa, pubblicata a pagina 4, parla chiaro: in Francia, nel 2005, si son spesi rispettivamente 342 e 84 euro; in Germania 354 e 72 euro; in Gran Bretagna 353 e 65 euro; in Italia 298 e 38 euro. In altre parole, nella vicina Francia il consumatore medio spende – per le medicine da banco – tre volte tanto quello che spende il consumatore italiano. L’obbiettivo delle aziende è di far aumentare il consumo di farmaci. Vogliono che il consumatore italiano compri più farmaci da banco: che al consumatore questi farmaci servano o no è lo stesso.

02 agosto 2006

È la stampa, bellezza
I luoghi comuni... sono dappertutto!

Scrive Beppe Grillo, nel suo post di ieri, intitolato "Adolf Gibson":

«Mel Gibson è stato fermato venerdì scorso dalla polizia a Malibu in stato di ubriachezza alla guida della sua auto. All’agente ha detto: “Gli ebrei sono responsabili per tutte le guerre nel mondo” e gli ha domandato se era ebreo. Due giorni dopo ha chiesto scusa per le sue dichiarazioni. La rete ABC ha cancellato una serie con Mel Gibson sull’Olocausto. Hollywood lo vuole mettere al bando. Alcuni opinionisti americani dicono che le scuse non bastano. Mel Gibson ha sbagliato e deve pagare. E i produttori di origine ebraica, e anche gli altri se ci sono, di Hollywood non devono dargli una seconda opportunità. Se avesse detto: “Israele è responsabile della guerra in Libano”, oppure: “Israele con il suo comportamento può fare scoppiare la terza guerra mondiale” forse avrebbero riaperto Alcatraz solo per lui e buttato via le chiavi.
Israele fa paura. Il suo comportamento è irresponsabile. Ecco, l’ho detto. E non sono neppure ubriaco. Sono solo spaventato per i miei figli. Come forse siamo un po’ tutti. Lo so, Veltroni mi metterà al bando da Cinecittà.
Dietro Israele ci sono gli Stati Uniti o dietro gli Stati Uniti c’è Israele, chi è la causa e chi l’effetto?
I giornali di tutti i Paesi musulmani hanno in prima pagina le foto di bambini libanesi bruciati. Il Mediterraneo è un mare di odio. In Italia siamo pieni di ordigni nucleari statunitensi. Per proteggerci meglio dicono. Ma io non voglio più essere protetto da questa gente. E se la scusa è la Nato, fuori dalla Nato e i cow boy a casa loro.»

Càcchio Beppe, che sforzo intellettuale! Che analisi lucida e impietosa! Che profondità di pensiero!

Altri luoghi comuni contro gli ebrei non ne hai trovati?