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06 agosto 2006

È la stampa, bellezza
Wimbledon è lontana

Tratto da “Il Corriere della Sera” di domenica 23 luglio 2006, pagina 26
di Massimo Mucchetti

(Riporto integralmente l’articolo, pubblicato nella rubrica «a Conti Fatti». Le mie considerazioni sono in fondo)

Le privatizzazioni dal mito di Wimbledon alla realtà del Senato

Il 27 febbraio 2005 Tommaso Padoa-Schioppa ha scritto per il Corriere un editoriale sul patriottismo economico intitolato «L'effetto Wimbledon». L'ex banchiere centrale citava il celebre torneo di tennis quale modello di promozione dell'interesse nazionale avendo per orizzonte il mercato globale. Wimbledon, infatti, rappresenta un fiore all'occhiello del Regno Unito non perché sia appannaggio dei tennisti inglesi, ma perché sa conquistarsi regolarmente la partecipazione dei migliori del mondo. Se gli organizzatori manomettessero le regole per far vincere un atleta locale, il prestigio del torneo ne risulterebbe compromesso e sarebbe una perdita per la nazione. Il mito di Wimbledon valeva e vale anche per l'economia italiana. E Padoa-Schioppa non risparmiava gli esempi - dalla Fiat all'Alitalia alle banche - dove c'era la tentazione di «far vincere» il tennista di casa.

Chi portasse la metafora alle estreme conseguenze arriverebbe a concludere che il governo non solo non deve aggiustare le regole nel corso della partita per favorire i «campioni nazionali», peccato contro la concorrenza che verrebbe peraltro sanzionato dalla Commissione europea, ma deve anche ritrovare coerenza: lo Stato, infatti, non può dettare le regole, controllarne l'osservanza e partecipare alla gara in competizione con i regolati senza incorrere in seri conflitti d'interesse. Nell'economia in stile Wimbledon, insomma, non ci dovrebbe essere posto per lo Stato imprenditore.

Nel suo editoriale, tuttavia, Padoa-Schioppa fino a questo punto non era arrivato. E ora si capisce perché. Intervenendo giovedì 20 luglio al Senato da ministro dell'Economia, Padoa-Schioppa ha annunciato che la mano pubblica non molla la presa su Eni, Enel, Finmeccanica e Cassa depositi e prestiti. Potrebbe aprire il capitale di Poste Italiane e Ferrovie ai privati, ma si tratterebbe di quote di minoranza simili,va detto, a quelle che mettevano in Borsa le banche e le finanziarie dell'Iri per le telecomunicazioni, le autostrade, l'agroalimentare o la siderurgia.

È interessante la ragione che il ministro ha addotto per non vendere altre azioni Eni ed Enel: «Siamo arrivati al limite sotto il quale queste aziende sarebbero sottoposte a offerta pubblica d'acquisto». Questo vuol dire che in certi casi, a suo giudizio, la stabilità degli assetti azionari è un bene da tutelare, e che nessuno meglio dello Stato lo può fare. Il punto, in verità, era chiaro da anni. Ma ci voleva un Padoa-Schioppa, con la sua solida reputazione liberale, per far emergere quanto sia lontano dalla realtà chi teorizza le privatizzazioni sempre fino all'ultima azione.

Dall'assunzione di responsabilità del ministro derivano, a mio parere, quattro conseguenze: a) il governo e gli enti locali potranno decidere se vendere o meno in base all'analisi concreta delle convenienze specifiche, e allora, per fare un esempio, il socialismo municipale potrà non essere smantellato tout court in quanto coacervo di piccole Iri, ma rivisto con scienza e coscienza; b) non risolvendolo in radice, il governo dovrà gestire in trasparenza il conflitto tra Stato regolatore e Stato azionista, e se darà il primato alla regolazione il modello Wimbledon sarà sostanzialmente salvo; c) da buon azionista, il governo non dovrà impedire lo sviluppo delle aziende, cosa che talvolta ha fatto, anche perché la sua partecipazione al 30% offre uno scudo destinato a indebolirsi mano a mano che cresce l'integrazione europea, ed Eni ed Enel saranno sempre più esposte al rischio di scalate ostili e beffarde perché potrebbero essere finanziate con debiti ripagabili dalle stesse prede; d) il ministero dell'Economia dovrà infine decidere se monetizzare comunque le partecipazioni senza perderne il controllo, attraverso la Cassa depositi e prestiti o sue più sofisticate filiazioni utilizzando la leva finanziaria a favore del bilancio pubblico.



I partiti hanno occupato lo Stato, e se ne servono per favorire gli scopi privati dei propri membri. Le aziende pubbliche, quotate in Borsa oppure no, sono una grande fonte di potere e di denaro: esse rappresentano posti di lavoro (dovrei dire sinecure) e opportunità d’intrallazzo (perfettamente legali, s’intende) per parenti, amici, amici degli amici. Costoro, in cambio, votano ad ogni elezione secondo le direttive dei partiti, perpetuandone il potere in un circolo vizioso che ormai conosciamo fin troppo bene. Le aziende pubbliche pagano la pubblicità sui giornali: di partito, o di proprietà degli amici del partito. Sponsorizzano (pagano a piè di lista le spese per) gli inutili convegni di questo e di quel personaggio politico. Esse sono destinate a rimanere in mano pubblica il più a lungo possibile…

Un problema italiano molto serio, dato dall’enorme dimensione del PIL prodotto da aziende pubbliche (dimensione da far invidia a Stati comunisti) è che lo Stato è contemporaneamente regolatore e regolato. Le regole non sono uguali per tutti… e vengono cambiate a gioco in corso (a vantaggio degli amici dei partiti). Quand’anche qualche personaggio del “sistema” vìola le regole, non c’è problema: la macchina della giustizia è molto lenta e i reati cadono in prescrizione. Ci sono casi addirittura in cui il fascicolo viene aperto e non viene toccato fino al sopraggiungere di questa.
E quando qualcuno dei furbetti non riesce a farla franca, ecco – a scadenza periodica - l’indulto.

Nell'economia in stile Wimbledon non ci dovrebbe essere posto per lo Stato imprenditore. Invece, ecco la ragione che il ministro ha addotto per non vendere altre azioni Eni ed Enel: «Siamo arrivati al limite sotto il quale queste aziende sarebbero sottoposte a offerta pubblica d'acquisto». Se Eni ed Enel fossero acquistate da aziende straniere, addio privilegi per i politici italiani.

È ovvio che la classe politica ricorre alle vere privatizzazioni solo quando assolutamente costretta. Ma anche in quel caso, la vendita è spesso pilotata.

Dall'assunzione di responsabilità del ministro derivano, a mio parere, quattro considerazioni: a) il governo e gli enti locali non cederanno il controllo delle aziende pubbliche; e allora, per fare un esempio, il socialismo municipale continuerà sine die. Scienza e coscienza? Chi, i politici? Mi viene da ridere; b) non risolvendolo in radice, il governo continuerà a gestire con la tradizionale opacità il conflitto tra Stato regolatore e Stato azionista, mandando a farsi benedire il modello Wimbledon (Luigi Einaudi, quello sì fu un liberale e grande statista); c) da cattivo azionista, il governo continuerà ad ostacolare lo sviluppo delle aziende, appesantendole con personale non necessario, consiglieri incapaci, direttive dal significato “politico” e completamente sbagliate dal punto di vista economico… anche perché la sua partecipazione al 30%, per il momento, offre uno scudo adatto a resistere all'integrazione europea, ed Eni ed Enel non saranno esposte al rischio di scalate ostili per molto tempo ancora; d) il ministero dell'Economia monetizzerà comunque le partecipazioni senza perderne il controllo, attraverso la Cassa depositi e prestiti o con qualche altra acrobazia contabile, rendendo ancor più difficile da decifrare il bilancio pubblico.

Wimbledon è molto lontana da qui.